La storia della comunità ebraica di trieste

DAL '200 AL '400: IL VESCOVO GIOVANNI E LA VIGNA IN VIA DEL MONTE

Il documento più antico che menziona un insediamento ebraico a Trieste risale al 1226. Si tratta di un atto notarile con cui il vescovo Giovanni vende i suoi diritti sovrani al Comune per 500 marche, così da risarcire l’ebreo Daniele David di Carinzia, residente a Trieste, della somma spesa per combattere i ladroni del Carso.
Nel Medioevo la componente ebraica è ridotta: qualche decina di persone, per lo più provenienti da oltralpe, dedite al commercio e al prestito (la principale attività dei primi residenti sono i banchi di pegno), che non costituiscono ancora una vera e propria comunità. La presenza ebraica è però destinata ad aumentare con rapidità. Infatti il Comune nel 1300 "licenzia" i fiorentini cristiani che fino ad allora erano i prestatori, confiscando i loro pegni, in quanto chiedevano dei tassi d'interesse troppo esosi. Al loro posto vengono chiamati gli ebrei. Nel corso del Quattrocento la presenza sempre più marcata degli ebrei nella vita cittadina è testimoniata da protocolli, piccoli processi e documenti.
Tra i tanti vale la pena di ricordare quello del 1446 relativo all’acquisto, da parte di Michele, figlio di Salomone da Norimberga, di una vigna da destinare a cimitero all’inizio dell’attuale via del Monte, l’erta cantata dal poeta Umberto Saba che s’inerpica sul colle di San Giusto. Qui, per quattro secoli, fino al 1843, troveranno sepoltura gli ebrei triestini. Un’ulteriore testimonianza, del medesimo periodo, è la pietra tombale di Rachel, figlia di Jehudà, morta nel 1448. Ritrovata nell’antico cimitero è ora conservata nel Civico Orto lapidario. Con successivi acquisti l'estensione del cimitero arrivò fin sotto il Castello. Oggi la sua parte superiore fa parte del Parco della Rimembranza, dove sono ricordati i caduti triestini delle ultime guerre.

DAL '500 AL '600: IL PRIMO PRIVILEGIO E LA NASCITA DEL GHETTO

Nel Cinquecento la situazione degli ebrei triestini rimane stazionaria, così come langue la vita economica della città soffocata dalla potenza veneziana. Si manifestano però i primi segnali di ostilità popolare nei loro confronti. Tanto che nel 1522 un’ordinanza del Capitano comunale ingiunge ai cittadini di astenersi da sassate e altre molestie contro il gruppo ebraico nei giorni della Settimana santa, periodo che in tutta Europa era allora per gli ebrei motivo di ansia e terrore.
A protezione degli ebrei triestini interviene lo stesso imperatore Massimiliano I con degli atti di tutela che segnano l’inizio di una serie di “privilegi” rinnovati dai regnanti d’Austria-Ungheria nei secoli successivi. Per oltre due secoli questi decreti sono per gli ebrei una vera e propria ancora di salvezza contro il montare della feroce ostilità sancita dalla Controriforma. A metà del Seicento il clima disteso che fino allora ha accompagnato l’opera dei banchieri e dei piccoli commercianti ebrei inizia però a guastarsi. Con notevole ritardo arriva anche a Trieste l’eco delle misure persecutorie ordinate dai pontefici romani.
Questi sentimenti trovano voce in memoriali inviati alle autorità centrali e in accuse gravissime. I Giudici rettori e il Consiglio dei patrizi chiedono più volte l’espulsione degli ebrei dalla città. Ma l’imperatore Leopoldo I disattende il sentimento della cittadinanza e del clero, limitandosi a separare gli ebrei dal resto della popolazione con l’istituzione di un ghetto. L’area prescelta è quella, allora periferica oltre che angusta, di Corte Trauner.
Nel 1693 dovrebbero entrarci circa settanta persone, per un totale di dieci nuclei famigliari. La forte opposizione a questa dislocazione trova ascolto: con un decreto imperiale del 28 novembre 1696, il ghetto viene spostato a Riborgo, nel cuore commerciale di Trieste. Alla popolazione ebraica sono assegnate 13 case intorno ad una piazzetta e lungo due contrade parallele che tagliano il quartiere in direzione nord-sud. La realizzazione del ghetto in un’area cittadina ricca e mercantile è frutto di una lunga lotta fra il Consiglio cittadino e la minuscola Comunità ebraica.
Quest’ultima rifiuta di essere relegata nella prima sede scelta dalle autorità, perché avrebbe significato la rovina economica, e alla fine riesce a spuntare una sistemazione di gran lunga migliore. Nel 1697 gli ebrei, un centinaio in tutto, entrano nel ghetto ricavato dalla requisizione di più case. Circondato da un alto muro, il ghetto è munito di tre porte – in piazza del Rosario, in via della Beccherie e a Riborgo - chiuse dal tramonto all’alba e vigilate da guardie cristiane, pagate dagli ebrei.

IL '700: IL PORTO FRANCO E LA FIORITURA DELLA NAZIONE EBRAICA

La proclamazione del porto franco di Trieste nel 1719, a opera di Carlo VI d’Asburgo, porta con sé privilegi e libertà per tutte le nazionalità e le confessioni religiose. Il fiorire dei traffici e dei commerci s’accompagna
a un incremento demografico che attraversa anche il nucleo ebraico, destinato ben presto ad assumere un ruolo centrale nelle fortune dell’emporio cosmopolita.
Nel 1746 gli ebrei triestini sentono dunque la necessità di dare vita a una vera e propria Comunità basata su alcune regole. Tali norme confluiscono in una serie di statuti che via via aggiornano i termini di tale convivenza all’aumento costante dei residenti e al mutare del clima politico. Nello stesso anno s’inaugura la prima Sinagoga, la Scola n.1 o Scola piccola, di rito tedesco, come testimonia la dedica di un lavabo lì esistente ed ora conservata nel Museo ebraico della Comunità “Carlo e Vera Wagner”. Realizzata all’angolo tra la Contrada delle Beccherie e la Contrada delle Scuole ebraiche, proprio dove si trova una delle porte del ghetto, sostituisce gli oratori privati delle singole famiglie in uso fino allora.
Intanto l’imperatrice Maria Teresa, per favorire la politica economica dell’impero, a Trieste mette da parte l’ostilità personale verso gli ebrei che si esprime invece nel resto dell’Austria Ungheria. Vedono così la luce alcuni decreti specifici tra cui quello che, nell’agosto del 1753, permette a un gruppo di ebrei triestini benestanti di risiedere fuori del ghetto.
Nel 1771 Maria Teresa concede infine agli ebrei di Trieste due Patenti sovrane, veri e propri regolamenti che prevedono, tra l’altro, l’esenzione dall’obbligo di indossare il segno giallo distintivo e l’abolizione della tassa speciale sulla persona (Leibsteuer), che doveva essere pagata da ogni ebreo per entrare in un’altra città. La copia originale in pergamena dello Statuto di Maria Teresa, munita della sua firma autografa, del sigillo imperiale e di una sontuosa rilegatura in velluto rosso, è ora conservata al Museo. La salvezza del prezioso documento dalle razzie dell’occupazione nazista si deve al vescovo Antonio Santin, cui il documento era stato affidato.

LE PATENTI GIUSEPPINE, L’APERTURA DEL GHETTO, LE SINAGOGHE

A decretare l’uscita degli ebrei dalla segregazione è la legislazione illuminata dell’imperatore Giuseppe II: nel 1781-1782 vengono emanate delle Patenti di tolleranza con cui si avvia un processo d’emancipazione civile che punta a rendere i numerosi sudditi ebrei utili allo sviluppo economico, finanziario e commerciale dell’impero. Gli ebrei sono così ammessi alla carica di deputati alla Borsa, all’esercizio di attività professionali fino allora vietate e all’università. Le prime Patenti sono integrate da ulteriori riforme.
Nel 1787 si prevede ad esempio l’obbligo del servizio militare anche per gli ebrei. La loro presenza nel porto franco è però ritenuta troppo importante sotto il profilo economico e la Comunità triestina viene esentata, purché si versi una quota di riscatto individuale a favore del fondo reclute. Sempre a Giuseppe II si deve la nascita della scuola elementare ebraica, aperta nel 1782 con il nome di “Scuole pie normali israelitiche”, che ancora oggi è una delle istituzioni centrali nella vita comunitaria triestina.
Secondo il dettato imperiale la scuola coniugava all’insegnamento della morale e della religione ebraica il programma e i testi delle scuole di stato oltre all’insegnamento obbligatorio della lingua tedesca. In linea con questi grandi cambiamenti, nel 1784 si aprono le porte del ghetto e nell’agosto del 1785 si abolisce definitivamente la segregazione. È il grande passo verso l’emancipazione. Ma la maggior parte degli ebrei continua a vivere nel ghetto. Tanto che proprio qui, nel periodo immediatamente successivo, vedono la luce due nuove sinagoghe, la Scola n.2 o Scola grande e la Scola n.3 o Scola spagnola. Entrambe sono collocate nello stesso edificio in stile veneziano, affacciato sulla piazzetta delle Scuole ebraiche, costruito nel 1797 dall’architetto Balzano e poi demolito negli anni Trenta del Novecento con lo sventramento di Cittavecchia.
La Scola grande – come la più antica Scola piccola – è di rito tedesco (ashkenazita). La Scola spagnola nasce invece per dare riposta alle accresciute esigenze di culto delle famiglie di rito sefardita arrivate a Trieste a metà del Settecento da Venezia, da Ancona e dal vicino Oriente. Nel 1790 in una casa del Corso, vedrà la luce la quarta sinagoga, la Scola Vivante, che nel 1829 verrà trasferita in un nuovo edificio all'inizio di via del Monte. Gli oggetti rituali che ornavano le antiche Scole possono ora essere ammirati al Museo “Carlo e Vera Wagner”, in via del Monte 5-7.

L’800: DA NAPOLEONE ALLA PARITÀ DEI DIRITTI

Fra il 1797 e il 1813 Trieste subisce per tre volte l’occupazione delle truppe napoleoniche, che segna per gli ebrei la conquista dei diritti. Nel 1810 è proclamata l’uguaglianza religiosa e civile di tutti i cittadini. Si elimina ogni forma di discriminazione ancora in vigore contro gli israeliti. Si sopprimono i divieti di possedere dei fondi e si considerano validi tutti gli atti di vendita, compravendita e cessione di beni immobili fatti da ebrei.
Il ritorno dell’Austria e il periodo della Restaurazione, caratterizzata in tutti i territori degli Asburgo da un forte centralismo e da un capillare controllo poliziesco, ripristinano alcune interdizioni (fra cui quella del pubblico impiego, del possesso di immobili o la necessità di un permesso per sposarsi).
Il processo di emancipazione è però già iniziato e i rapporti con la cittadinanza si fanno sempre più stretti, anche grazie alla formazione di una nuova borghesia cosmopolita protesa verso lo sviluppo economico della città. Anche per questo la rivoluzione del ’48 vede un atteggiamento riservato da parte della Comunità ebraica di Trieste, della quale soltanto alcuni aderiscono ai moti italiani.
Per giungere alla tanto sospirata totale equiparazione dei diritti - religiosi, civili e politici - si dovrà però attendere la promulgazione della Costituzione del 1867 che, fra gli altri diritti, concederà agli ebrei la libera scelta della residenza, mutando così il volto della Comunità ebraica di Trieste. Sul finire del secolo la città portuale attira infatti, specialmente dal resto dell’Impero, decine di imprenditori e commercianti che qui si specializzano nei commerci di caffè, spezie, zucchero, uvette, granaglie ed erbe aromatiche orientali.

LA VITA ECONOMICA: ASSICURAZIONI E COMMERCI

L’Ottocento vede svilupparsi in modo impetuoso la vita economica dell’emporio triestino e segna il momento di maggiore fioritura civile e culturale degli ebrei di Trieste. Nel porto degli Asburgo nascono le prime compagnie assicurative e di navigazione mentre i traffici marittimi vivono un impulso senza precedenti. La componente ebraica, assieme ad altri gruppi acattolici favoriti dal porto franco, continua a giocare un ruolo di primo piano, testimoniato ancor oggi da sontuosi palazzi che caratterizzano la città: palazzo Hierschel lungo il Canal grande; palazzo Morpurgo de Nilma in via Imbriani, oggi sede di un museo d’epoca dedicato alla famiglia; Casa Schott, grossi commercianti di lane, in via Roma; palazzo Carciotti, primo e più originale esempio di neoclassico a Trieste, progettato dall’architetto Matteo Pertsch, non di proprietà ebraica ma prima sede delle Assicurazioni Generali.
Appartiene alla Comunità ebraica il fondatore di queste ultime, Giuseppe Lazzaro Morpurgo, nato a Gorizia nel 1759 e morto a Trieste nel 1835.
E sono di origini ebraiche molti dirigenti della stessa compagnia: Samuele della Vida, Gioberti Luzzati e Marco Besso, appassionato umanista. È ebreo Elio Morpurgo (Trieste 1804-1876), per lunghi anni amministratore e poi presidente della compagnia di navigazione Lloyd austriaco, che svolge un ruolo di primo piano nello scenario economico e politico del tempo rappresentando la locale Camera di commercio all’apertura del canale di Suez. Il suo palazzo (non più esistente) sorgeva accanto a quello del fratello Giuseppe, pure lui impegnato anche politicamente, che oggi ospita la Biblioteca Statale di Largo Papa Giovanni. A coronare la sua attività, gli Asburgo gli concedono il titolo ereditario di barone. Accanto sorge anche il Palazzo Vivante, splendido per i suoi marmi ed affreschi, appartenuto al banchiere, anch’egli barone, Fortunato Vivante. Infine è di origine ebraica l’ingegner Eugenio Geiringer (1844-1904), ideatore del tram elettrico che ancora oggi conduce da Trieste a Opicina.

GLI EBREI DA CORFÙ E IL NUOVO VOLTO DELLA COMUNITÀ

Un’immigrazione di segno molto diverso da quella che, dopo la Costituzione del 1867, vede approdare nel porto triestino imprenditori e commercianti dai territori austriaci e tedeschi, si registra nel 1891. Allora giunge a Trieste quasi un migliaio di ebrei in fuga dall’isola di Corfù, dove un’accusa di omicidio rituale ha scatenato un’ondata di persecuzioni e violenze. Sono piccoli commercianti, molti di loro hanno scarse risorse e cercano riparo in una città con cui vi è una lunga consuetudine commerciale. Da Corfù giungevano infatti i cedri poi acquistati dagli ebrei dell’Europa orientale per Succot, la festa delle capanne.
La maggior parte dei fuggitivi si stabilisce in città dove li raggiungono, nel decennio successivo, numerosi compatrioti. Gli ebrei corfioti, che oggi rappresentano la parte più importante della Comunità ebraica di Trieste, hanno vissuto per secoli sotto il dominio di Venezia. Parlano un dialetto pugliese-veneto e arricchiscono la liturgia triestina con antiche pratiche italiane. Il risultato dell’incrocio di questi flussi migratori è che la Comunità ebraica di Trieste, in origine costituita da un piccolo nucleo ashkenazita, poi ampliatosi con apporti sefarditi e italkim durante il Settecento, muta la sua fisionomia per assumere quel tratto cosmopolita che contrassegna l’intera città.
A fine Ottocento il peso della comunità, anche in termini demografici, è ormai notevole. Su una popolazione di 123 mila persone conta infatti quasi 5 mila iscritti a cui garantisce numerosi e diversificati servizi: una scuola elementare frequentata allora da 500 alunni, un asilo d’infanzia, un ospedale israelitico sito in via del Monte e una casa di riposo che ancor oggi continua a funzionare.

TRIESTE PORTA DI SION

Tra Otto e Novecento la città registra un flusso costante di ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale e della Russia e diretti in Palestina o nelle Americhe. Fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale è proprio Trieste il principale porto d’imbarco per Eretz Israel, tanto da vantare il titolo di “Shaar Zion”, “Porta di Sion”. Dal 1908 è attivo un Comitato pro emigranti ebrei, che si mobilita anche nella raccolta di fondi a sostegno dei profughi, fra cui vi sono tanti giovani pionieri sionisti. Con l’aumento dell’emigrazione le forme di aiuto da parte della Comunità si moltiplicano. Nel 1920 in via del Monte 7 viene istituito il “Misrad”, un vero e proprio Comitato d’assistenza agli emigranti ebrei, affiancato da un Patronato per i sussidi in denaro, alloggio, vitto o vestiario ai più bisognosi.
L’antico ospedale israelitico viene trasformato in alloggio per i profughi, sul modello di quello creato dagli armatori Cosulich a Servola già alla fine dell'Ottocento per assistere gli emigranti in attesa del visto di transito. La costante presenza a Trieste di ebrei stranieri in fuga rende la Comunità più sensibile al tema dell’antisemitismo rispetto ai correligionari italiani e ha l’effetto di stimolare lo sviluppo di un Gruppo sionista locale.
Sorto nel 1904, svolgerà un ruolo determinante nella salvezza di tanti ebrei europei negli anni del regime nazista, quando l’afflusso di profughi dalla Germania e dall’Est si farà molto più intenso. Fra il 1938 e il 1940 il gruppo riuscirà a mandare in Palestina, sulle navi del Lloyd triestino, 504 ebrei italiani (il 10 per cento degli ebrei fuggiti in quegli anni) e 200 mila profughi da tutta l’Europa dell’Est.

IRREDENTISMO E SIONISMO 

Il primo scorcio del Novecento vede la Comunità ebraica pienamente integrata nel tessuto sociale, economico e culturale della città. Rispetto agli altri territori dell’impero asburgico, dove l’antisemitismo è ben diffuso, Trieste vive una realtà privilegiata di tolleranza.
Al suo interno si ripercuotono però i fermenti e le lotte nazionali che negli anni antecedenti la Prima guerra mondiale contraddistinguono queste terre di confine. Accanto alla componente sefardita (di origine spagnola), ashkenazita (di origine tedesca o polacca) e a quella corfiota, vi è infatti una presenza veneto-italiana che spesso prende le distanze dall’appartenenza religiosa in favore dell’educazione laica, dell’assimilazione e dell’adesione al modello nazionale e culturale italiano.
Da Trieste si guarda infatti all’Italia come al luogo in cui gli ebrei hanno raggiunto una piena parità di diritti prima che in Austria. In termini politici ciò si traduce nella militanza a favore della causa irredentista, tra le fila del partito liberalnazionale. Tra i leader più noti del movimento, vi sono Felice e Giacomo Venezian, Camillo Ara, Moisè Luzzatto e Teodoro Mayer, fondatore nel 1881 del quotidiano “Il Piccolo”, ancora oggi il principale quotidiano di Trieste. Alcuni giovani ebrei triestini cadranno nella Prima guerra mondiale come volontari nell’esercito italiano.
Ma l’impegno politico dell’ebraismo non si esaurisce nel campo liberalnazionale. Fra tutti vale la pena di ricordare Angelo Vivante, direttore del quotidiano socialista “Il lavoratore” e critico agguerrito dell’irredentismo e dei nazionalismi.
È poi incisiva anche l’attività del locale gruppo sionista, sorto intorno al “Corriere israelitico” diretto tra il 1903 e il 1915 da Dante Lattes, primo periodico sionista in lingua italiana che si schiera a favore di Teodoro Herzl, il fondatore del sionismo politico considerando irrinunciabile per gli ebrei l’emigrazione in Palestina e la costruzione di un nuovo Stato ebraico. A tale orientamento contribuisce senz’altro in modo decisivo il flusso sempre più consistente di profughi che, con il montare dell’antisemitismo nel Centro ed Est Europa, emigrano verso la Palestina o le Americhe. Anche l'influenza di Zvi Perez Chajes, rabbino capo tra il 1913 e il 1918, contribuì alla diffusione dell'ideale sionista a Trieste.

LA COSTRUZIONE DELLA GRANDE SINAGOGA

Un chiaro segno dell’importanza raggiunta dalla Comunità triestina nella prima metà del Novecento è la realizzazione della monumentale sinagoga di piazza Giotti, ancora oggi uno dei simboli della Trieste multireligiosa. L’edificio, che sarà inaugurato nel giugno 1912 alla presenza delle autorità cittadine guidate dal governatore, il principe di Hohenloe, è realizzato su progetto degli architetti Ruggero e Arduino Berlam. Si vuole così dare risposta alle esigenze di una comunità sempre più fiorente, che nel 1938 conta quasi 6 mila persone.
Nella sinagoga, una delle più grandi d’Europa, si unificano i servizi religiosi fino allora distribuiti nelle quattro Scole, tutte destinate a venire demolite negli anni Trenta, nell’ambito della riqualificazione urbanistica del centro città voluta dal regime fascista. Vede così la luce un rituale unico che allora come oggi mescola liturgie e riti ashkenaziti e sefarditi. Al tempo stesso, nella maestosità architettonica del complesso, ben diverso dalla modestia che caratterizzava gli esterni delle vecchie Scole, si esplicita il senso di un ruolo e di un’appartenenza alla città che solo pochi decenni più tardi sarà messo in discussione in modo drammatico.

IL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI

L’arrivo dell’Italia liberale a Trieste, nel 1919, spazza via le ultime discriminazioni ancora in vita. Ma la libertà sarà un intermezzo molto breve prima della catastrofe della Shoah. Nel settembre 1938, in un discorso pronunciato proprio a Trieste, in piazza Unità, Benito Mussolini annuncia infatti la promulgazione delle leggi razziali. Dopo una serie di misure restrittive tese a isolarli ed emarginarli, si sancisce così la completa espulsione dei cittadini ebrei dalla società civile.
La componente ebraica, in particolar modo a Trieste, come abbiamo visto, è profondamente integrata: partecipa alla costruzione dello stato e della società, in taluni casi occupa posizioni chiave in campo politico o economico e alcuni suoi membri, soprattutto d’appartenenza borghese, sono anche vicini al movimento fascista. Le leggi razziali rappresentano dunque uno choc, un momento di profonda rottura sociale e, data la rilevanza della Comunità ebraica, hanno una portata particolarmente drammatica e complessa.
Nel giro di pochi anni gli ebrei sono espulsi dalle scuole, dagli impieghi pubblici, dall’esercito, dall’insegnamento, dalla direzione e dalla proprietà di medie e grandi aziende, dall’esercizio delle professioni, dall’industria teatrale e cinematografica. Si limita il loro diritto di proprietà e, con effetto retroattivo, si revoca la cittadinanza italiana a quanti l’hanno ottenuta dopo il primo gennaio 1919, creando così circa 500 apolidi privi di ogni protezione, impossibilitati anche a emigrare perché privi di passaporto. La discriminazione estromette impiegati, funzionari e dirigenti ebrei dalla Borsa, da molte banche, dalla Cassa di risparmio, dalle società culturali e sportive, dall’Università e colpisce in modo sistematico i vertici delle compagnie assicurative, quali le Assicurazioni Generali e la Ras, che proprio alla componente ebraica dovevano le proprie origini.
Molte aziende passano a una proprietà ariana, ad esempio il quotidiano “Il Piccolo”, la Raffineria Aquila, gli Oleifici Luzzati o la Società istriana dei cementi. Infine, il 22 febbraio 1939, viene commissariata la Comunità israelitica che fino allora aveva rappresentato un elemento fondamentale di riferimento e di coesione.
L’applicazione delle leggi razziali si accompagna al montare dell’antisemitismo popolare. Dal 1941, anche sulla scia degli eventi bellici, la persecuzione si fa via via più aspra. Accompagnato dall’ossessiva propaganda dei giornali (la polemica del periodico “La Porta orientale” coinvolgerà nel 1942 anche lo scrittore Giani Stuparich, di madre ebrea), il sentimento antiebraico trova terreno fertile, nella sua versione più aggressiva, soprattutto in certi ambienti squadristi e studenteschi. Gli incidenti e i maltrattamenti si susseguono fino alla devastazione, il 18 luglio 1942, della maestosa Sinagoga, i cui esterni negli anni precedenti erano già stati imbrattati di fasci e svastiche.
Un gruppo, fra cui in seguito si accerterà la presenza di sette squadristi, irrompe nel Tempio: i banchi vengono rovesciati e spaccati, i lampadari abbattuti al suolo, i libri distrutti e bruciati, le due grandi menoròt (candelabri) dell’altare completamente ritorte. Nelle stesse ore sono presi di mira anche l’oratorio e gli alloggi per gli emigranti di via del Monte. Le intimidazioni e le aggressioni contrassegnano anche il 1943, anno che rappresenta un momento di drammatica svolta per la Comunità di Trieste, culminando a maggio in un feroce saccheggio dei negozi di proprietà ebraica.
Solo due mesi più tardi la caduta del regime fascista e la costituzione del governo Badoglio lascia intravedere una speranza di libertà. Ma l’8 settembre del 1943 scatta il piano d’occupazione tedesco e Trieste, capoluogo del Litorale adriatico, viene posta sotto il diretto controllo germanico. La politica antisemita volge ora alla soluzione finale.

LA RISIERA DI SAN SABBA, LE DEPORTAZIONI 

Tra novembre e dicembre del 1943 la Risiera di San Sabba, complesso di edifici industriali dei primi del Novecento, un tempo adibito alla pilatura del riso e poi a caserma, viene trasformato nell’unico campo di sterminio dotato di forno crematorio, realizzato sul territorio italiano . A gestirla sono chiamati militari e ufficiali già sperimentati nelle atrocità della soluzione finale in Polonia. Alla Risiera trovano la morte tra le 4 e le 5 mila persone, per lo più oppositori politici, partigiani italiani, sloveni e croati.
Le vittime ebree ad oggi accertate sono meno di trenta. Per gli ebrei il campo di San Sabba è infatti solo una sistemazione temporanea in attesa della deportazione, di solito in direzione Auschwitz. Fin dall’inizio dell’occupazione i nazisti rastrellano metodicamente la popolazione ebraica triestina. La prima retata avviene il 9 ottobre 1943, nel giorno di Kippur, il grande digiuno penitenziale. La seconda ha luogo venti giorni dopo mentre il 23 novembre si colpisce la Comunità di Gorizia. Fino al 24 febbraio 1945 da Trieste partiranno ben 70 trasporti alla volta di Auschwitz-Birkenau e, in qualche caso, di Dachau. Tra gli episodi più feroci, la deportazione che il 20 gennaio del 1944 colpisce la “Pia casa Gentiluomo”, l’ospizio per anziani e malati.

LA LIBERAZIONE

La guerra colpisce nel profondo la Comunità triestina. Al momento della liberazione i soldati neozelandesi dell’ottava Armata britannica trovano in città solo 4-500 ebrei, ormai ridotti allo stremo. Il 7 maggio del 1945 una quindicina di loro, insieme al rabbino Lipschitz della Brigata ebraica e a un corrispondente di guerra canadese, si reca alla Sinagoga e ne riapre le porte. Il grande Tempio, come gli uffici comunitari ai piani superiori, ha superato quasi indenne la tempesta bellica. I nazisti lo hanno infatti trasformato in deposito di libri e opere d’arte.
Gli argenti rituali della Comunità, in parte ora esposti al Museo ebraico “Carlo e Vera Wagner”, si sono però miracolosamente salvati dalla razzia, grazie a un ingegnoso nascondiglio ricavato all’interno dello stesso complesso sinagogale.
La Shoah riduce la grande Comunità triestina all’ombra di se stessa. È difficile conoscere con esattezza il numero degli ebrei deportati. Ma si tratta di più di 700 persone, il 10 per cento degli ebrei italiani.
Fanno ritorno dai campo di sterminio solo in 19, soprattutto donne, che testimonieranno l’orrore subito. Dopo la guerra rientra in città un migliaio di sopravvissuti nascostisi in Italia o in Svizzera. Molti di loro emigreranno in Palestina o nelle Americhe. Rimangono a Trieste circa 1500 ebrei e a metà degli anni ‘60 un netto scompenso tra morti e nascite ridurrà il loro numero di circa 500 unità.

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SITOGRAFIA

www.museoebraicotrieste.it

https://vimeo.com/289893830 per il documentario 1938 Vita amara, di Sabrina Benussi (2018).

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